PERCHE'
L'AFFARE DEIULEMAR NON FA RUMORE COME IL CASO MPS?
Gl'intrighi del "Salotto buono": Perché l'affaire Deiulemar non fa
rumore come il caso Mps?
TORRE DEL GRECO- In queste ore, a monopolizzare l’attenzione dei
media, la deflagrazione del caso Monti dei Paschi di Siena,
anticipato dagli articoli de “Il Fatto quotidiano”. In realtà, più
che per la gravità della situazione in cui versa la più antica banca
del mondo (costituita nel 1472), il caso sta montando soprattutto
per l’accezione “politica” che si sta dando alla vicenda,
evidenziando – ancora una volta - lo stretto legame esistente tra i
poteri forti dei salotti finanziari e quelli politici (che tendono a
diventare un unicum). In particolare colpisce, ma non stupisce, la
tempistica dello scoppio del caso: proprio nel vivo della campagna
elettorale.Tuttavia, questo panegirico di parole è funzionale ad
accendere lievemente l’attenzione su di un’altra vicenda
finanziaria, fatta passare abbastanza in sordina dai canali
d'informazione: Il crack della Deiulemar - compagnia di navigazione
di Torre del Greco (in provincia di Napoli) - che ha coinvolto circa
13mila risparmiatori (di cui 10mila famiglie del luogo), i quali
risultano aver investito nella società più di 720 milioni di euro.
La gravità dei fatti ha fatto scattare un preoccupate parallelismo
con un altro caso, il crack Parmalat, al punto tale da arrivare a
definire la Deiulemar la "Parmalat del mare". Nonostante ciò, in
tutti questi mesi, se ne è parlato poco.Così, mentre ieri venivano
fuori i retroscena connessi alla decisione di Giuseppe Mussari di
dare le dimissioni dalla presidenza dell’Abi, allo stesso tempo il
Tribunale di Torre Annunziata disponeva “il sequestro conservativo
dei beni mobili e immobili degli armatori coinvolti nel fallimento
della compagnia di navigazione Deiulemar fino al raggiungimento di
un miliardo e 250 milioni di euro”. In particolare, il provvedimento
di sequestro vede coinvolti l'ex amministratore unico, Michele
Iuliano, Maria Luigia Lembo, Giovanna Iuliano, Giuseppe Lembo,
Leonardo Lembo, Lucia Boccia, Angelo Della Gatta, Pasquale Della
Gatta e Micaela Della Gatta. Inoltre, la sezione Fallimentare del
Tribunale di Torre Annunziata ha fissato per il 21 febbraio prossimo
l'udienza per "riconoscere e dichiarare il fallimento della società
di fatto costituita tra i soggetti", raggiunti dal citato
provvedimento di sequestro preventivo.Per dovere di cronaca, prima
di arrivare a questo ultimo atto in ordine di tempo, occorre fare
una breve ricostruzione dei fatti. L' inchiesta - condotta dal
procuratore uscente Diego Marmo, coordinata con i pm Emilio Prisco e
Sergio Raimondi - prende il via il 13 febbraio 2012, a seguito di
una denuncia presentata contro l’88enne Michele Iuliano - uno dei
tre armatori che nel 1969 diede vita alla compagnia insieme a
Giovanni Della Gatta e Giuseppe Lembo (Deiulemar è l’acronimo dei
loro cognomi) – fascicolo in cui si configurano le ipotesi di reato
di associazione per delinquere finalizzata alla appropriazione
indebita.Tuttavia, per comprendere fino in fondo questa storia,
oltre a dover evidenziare il peculiare legame familiare che
intercorre tra i tre soci (tutti originari di Torre del Greco, sono
infatti cognati: Giuseppe Lembo e Giovanni Della Gatta hanno
sposato, rispettivamente, Filomena e Luciana Boccia, mentre Michele
Iuliano ha sposato Gina Lembo, sorella del Comandante Giuseppe
Lembo), bisogna risalire alla tradizione del "carato", ovverosia un
meccanismo di compartecipazione del rischio armatoriale, spesso
esteso alla popolazione locale (questo spiega il perché del
coinvolgimento delle circa 10mila famiglie di Torre del Greco,
definite dal Comandante Lembo “mercato interno”) e disciplinato
anche dal codice della navigazione. In questo modo, i tre soci
riescono a mettere insieme il capitale necessario per l’acquisto del
primo bastimento di 1.700 tonnellate di stazza lorda, denominato
White Pony (successivamente “il cavallino bianco” è diventato
l’emblema della società, raffigurato su ogni nave della flotta
Deiulemar).Tale sistema di “finanziamento”, alla fine degli anni
'70-'80, si evolve prendendo la forma dell’emissione di prestiti
obbligazionari. L’obiettivo della suddetta forma non era di
“guadagnare, bensì risparmiare”, come aveva sottolineato lo stesso
Comandante Lembo, spiegando - in questo modo - il perché non
avessero optato per la quotazione in Borsa. Così, fra gli anni 80 e
la fine del 2010, vengono emesse obbligazioni per un importo
complessivo di circa 40 milioni di euro, con cedole annuali fra il
5,8% e il 7% netti.Tutto sembra procedere senza troppi intoppi per
questa grande compagnia dello shipping, fino a quando non si
cominciano a far sentire i contraccolpi della crisi economica. Così,
a metà gennaio dell’anno scorso, iniziano a circolare voci su una
presunta instabilità dell’azienda. Voci che - a stretto giro - si
rafforzano, portando alla luce soltanto la punta di un iceberg.
Infatti, come aveva dichiarato Diego Marmo, all’indomani
dell’apertura del fascicolo: “è un mare magnum che necessita
maggiori approfondimenti, perché il caso interessa l’intera comunità
torrese”, soprattutto alla luce “dell’esposto presentato dalla
società (con cui il nuovo amministratore delegato aveva reso nota
l’emissione, nel passato, di titoli obbligazionari irregolari, nda)”.In
sostanza, contemporaneamente ai certificati obbligazionari
regolarmente emessi, l’impresa e i suoi amministratori avevano
iniziato a rilasciare titoli simili ad obbligazioni al portatore,
intestati alla società e da essa regolarmente onorati fino a poche
settimane prime che scoppiasse il caso. Tuttavia, la suddetta
emissione avveniva senza tener conto delle norme sulle emissioni e,
sulla base di quanto emerso nel corso delle indagini, al di fuori
dai bilanci della società stessa, visto che i certificati
“irregolari” risultavano essere identici a quelli “regolari” sia
come a scadenza (fine 2018) e che come intestazione e modalità di
pagamento, al netto, (essendo a carico dell’emittente la trattenuta
fiscale).Così, andando in profondità nell'ambito di questo “mare
magnum” da 860 milioni di debiti in cui si è inabissata la Deiulemar
e che ha portato alla dichiarazione di fallimento il 2 maggio dello
scorso anno dal Tribunale di Torre Annunziata, sono emerse una serie
di operazioni sospette, trust e fiduciarie incastrate come scatole
cinesi nei paradisi fiscali di Lussemburgo, Malta e l’isola
portoghese di Madeira. Tutto ciò, al fine di evadere le tasse e
nascondere il patrimonio.Infatti, dalla documentazione in possesso
di Antonella De Luca, Vincenzo Masciello e Giorgio Costantino, i tre
curatori nominati dal giudice, congiuntamente alle indagini svolte
dalla Guardia di Finanza di Napoli, al termine di una verifica
fiscale iniziata nel giugno 2011, sta venendo fuori che la
maggioranza dei versamenti degli obbligazionisti - qualche volta
effettuati cash, altre volte direttamente sui conti personali degli
amministratori - in realtà non sono mai passati nelle casse della
Deiulemar. Il denaro, infatti, andava a finire su società diverse
con sede legale in Lussemburgo (tra cui la società Dimaiolines).
Queste, a loro volta, erano controllate da trust i cui beneficiari
rimangono ancora sconosciuti.In particolare, in base al rapporto
delle Fiamme Gialle, l’inizio dello svuotamento del patrimonio di
Deiulemar risale al 2005, quando la società madre trasferisce 11
navi alla costola Deiulemar Shipping, per un valore di circa 163
milioni di euro. Il passo successivo consiste nel proliferare delle
fiduciarie – Poseidon International, Poseidon Finance, Sbf, Hamburg,
Azzurro – e dei tre trust. Inoltre, secondo le ipotesi della Guardia
di Finanza, elemento centrale di questo sistema di scatole cinesi,
la società lussemburghese Lamain e una call option di vendita. Tra
le diverse operazioni sospette emerse, l’acquisto nel 2009 di una
nave per diversi milioni di dollari ( che ancora non è stata
consegnata), da parte della Poseidon Shipping. Secondo
gl’inquirenti, l’acquisto sarebbe stato condotto solo sulla carta al
solito scopo di distratte rilevanti somme di denaro. Così, tutta
questa architettura finanziaria serviva a frodare il fisco, pagando
meno tasse, e ad occultare il patrimonio aziendale (stimato intorno
ai 400-450 milioni di dollari).Ed anche in questo caso, come sta
avvenendo per Mps, sorgono dubbi sull’azione degl’organi preposti al
controllo e alla vigilanza, quali Consob e Bankitalia, oltre alla
società di revisione KPMG che, nonostante fosse a conoscenza delle
rilevanti e irregolari operazioni fuori bilancio attraverso
l’emissione di obbligazioni, non ha proceduto nel denunciare l’anomalia.Così,
in attesa di vedere come si evolverà giudiziariamente la vicenda,
rimane il punto interrogativo posto nel titolo della suddetta
disanima: Perché l’affaire Deiulemar non fa rumore come il caso Mps?
Forse perché esistono risparmiatori di serie A e quelli di serie B
(e così, i13mila risparmiatori coinvolti, verrebbero ritenuti tali
forse perché, in larga parte, concentrati in una circoscritta
località del Sud) e non essendoci stato alcun intervento statale,
non merita molta attenzione? Forse perché il crack Deiulemar non si
presta ad essere strumentalizzato per fini politici (creando un
polverone nei confronti di alcuni dei protagonisti delle prossime
elezioni), o – infine - perché, continuando a scavare, si teme di
andare a toccare altri tipi di poteri forti? Ai posteri l’ardua
sentenza.a cura. di Rosy Merola (fonte: Il Fatto Quotidiano, La
Repubblica, linkiesta.it)