22-01-2019

Trasporti marittimi: scenario in atto e sfide

Eleonora Maglia

Il trasporto marittimo contribuisce per il 70% al commercio mondiale. Il settore è in leggera crescita (4%) ma resta dominato da pochissime grandi compagnie che giocano la competizione interamente sul taglio dei costi, con ripercussioni sui lavoratori.

Dinamiche ed evoluzioni in atto 

L’economia marittima è un settore rilevante a livello globale, per la numerosità e per l’operatività delle imprese attive, nonché per la mole di infrastrutture e di investimenti coinvolti: gli scambi commerciali rappresentano infatti l’80% del commercio mondiale per volume e il 70% per valore (SRM, 2018). Per dimensione, invece, la parte più significativa del trasporto marittimo è rappresentata dalle economia emergenti (59% dell’export e il 64% dell’import) e in particolare l’Asia (40% dell’export e il 61% dell’import). 

In linea con i trend economici generali, dal 2012 si è registrato un certo rallentamento dello sviluppo del commercio internazionale (con un calo in valore pari a -3% nel 2016), soprattutto a causa della minore spesa per investimenti (IMF, 2017) e, anche se i volumi scambiati sono in aumento (Figura 1), il tasso di crescita è ancora al di sotto della media degli ultimi 40 anni. Tuttavia le stime sono ottimistiche e prevedono per il settore un aumento del 4% nel prossimo anno.

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Focalizzando sulle caratteristiche della domanda e dell’offerta del settore, risulta che, a fronte di una crescita (ad un tasso superiore del 50% tra il 2009 e il 2017) e di concentrazione della flotta navale (un fenomeno noto come gigantismo navale), non vi è stata una corrispondente crescita della domanda. Ciò espone il settore ai condizionamenti che una situazione di oversupply comporta, soprattutto in termini di adeguamento delle infrastrutture ricettive (si noti che questo aspetto non è trascurabile a livello nazionale, posta la posizione geografica e la vocazione mercantile dell’Italia). All’interno delle dinamiche descritte, il settore è dunque “governato da pochissime grandi compagnie e la competizione globale si gioca interamente sulla capacità di realizzare economie di scala, tagliando il più possibile i costi legati al trasporto (Bonciani, 2017, p.58).

Lavoratori in cerca di tutele 

Globalizzazione, deregolamentazione dei mercati finanziari e gigantismo navale dunque sono tutti fenomeni che spiegano le esternalità sociali ed ambientali ed i fattori di rischio presenti nel settore marittimo. Negli ultimi anni, la crisi economica e la conseguente riduzione del commercio, da un lato, e la produzione di nuove navi, d’altro lato, hanno innescato una forte competizione internazionale esperita attraverso la riduzione dei costi e la voce di running cost variabile e comprimibile su cui, di fatto, è stata scaricata la continua ricerca di risparmio delle compagnia armatoriali nelle dinamiche descritte è la forza lavoro (Bologna, 2015). La qualità della vita di un lavoratore marittimo così risente negativamente della scarsa sicurezza a bordo nave, della mancanza di garanzia di uno stipendio dignitoso e continuativo e dell’assenza di servizi negli ambienti di lavoro che soddisfino dal punto di vista morale e permettano, nelle ore libere, di rinfrancarsi e di contattare i propri familiari. Complessivamente, il lavoro per mare di per sé è già di un’occupazione usurante, impegnativa dal punto di vista fisico e psicologico, per la pericolosità della gestione di carichi oggetto all’incertezza delle condizioni atmosferiche e per il senso di isolamento causato dalla separazione prolungata dalla terra ferma e dagli affetti.

Questi aspetti richiedono interventi ad hoc e sono le istanze comunitarie e internazionali, nonché la ricerca di un miglioramento delle performance della forza lavoro, a spingere ad un’assunzione di responsabilità sociale le compagnie del settore. Tra gli strumenti di tutela per i marittimi, entrati in vigore nel 2017 grazie all’International Labour Organization, si trovano ad esempio il Fondo di Garanzia che, al fine di scongiurare situazioni di mancato adempimento da parte degli armatori dei doveri di mantenimento economico degli equipaggi, in caso di episodi di abbandono dei lavoratori sulle navi, garantisce la retribuzione e assicura il trasferimento degli equipaggi nel Paese di origine. Soccorrono alle difficili situazioni illustrate anche le organizzazioni internazionali site nei porti di transito e gli altri accordi specifici stipulati in materia, grazie al coordinamento delle Agenzie delle Nazioni Unite deputate al controllo, come l’International Maritime Organization, l’International Transport Workers Federation e l’International Shipping Federation. 

Nonostante lo sforzo profuso e la presenza di armatori illuminati sul tema, tuttavia, soprattutto nelle zone periferiche escluse dalle rotte commerciali principali, si registrano ancora situazioni d’ombra, con l’utilizzo di bandiere di comodo e il ricorso a pratiche di delocalizzazione (un fenomeno noto come flugging out). Il crescente numero di feriti e morti in mare –3.025 incidenti, 3.399 navi coinvolte, 136 morti e 1.075 feriti registrati nel 2015 contro i 2.250 incidenti, 2.872 navi coinvolte, 74 morti e 754 feriti registrati nel 2013 (Emsa, 2015) – mostra la necessità, tuttora attuale, di porre attenzione e prevedere nuove azioni concrete in merito. L’auspicio è che una continua informazione sul fenomeno si affianchi alla letteratura scientifica in tema di welfare marittimo (Shin and Thai, 2014) e renda progressivamente consci tutti gli armatori che gli equipaggi costituiscono un assetproprietario, su cui è centrale investire –in termini di formazione, soddisfazione economica e morale– anche con condizioni di vita e remunerazioni premianti superiori a quanto previsto dalle convenzioni e dai contratti internazionali.

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